Molestia sessuale: quo vadis?

«… ma come?! e adesso … mi lascia così?!!»
«Sì. Così.»
Ed esco dallo studio per dargli il tempo di ricomporsi.

10 lunghissimi minuti. E’ il tempo che mi do. Per non svalvolare. Per ricentrarmi.
10 brevissimi minuti. E’ il tempo che gli do. Per ritrovarsi. E andarsene.
Senza appello.

Rientro nello studio.
Sorriso di convenienza sulle labbra e gelo negli occhi che cercano il suo sguardo senza trovarlo.
E’ imbarazzato.
«Tenga … il suo onorario …»

Strano.
Pezzo insolito. Taglio differente.
«A lei il resto.»
«… no, no … tenga pure …»
«Sta scherzando vero?!»
«Beh, sì … no … ecco … non mi da un nuovo appuntamento per il solito reset del quadrimestre?»
«No. Buon lavoro e mi saluti la signora.»

Altro anno, altro mese, altro giorno.
Stessa location.
Ore 9.
Del mattino. Naturalmente.
Mi serve il timbro della Società.
Busso alla porta dello studio accanto al mio.
«Avanti!»
Entro.
In piedi, accanto alla scrivania, il mio collega. Osteopata.
Vicino al lettino, non ancora disteso, il paziente.

Donna. Apparente età di 50 anni. Truccata in modo vistoso. Senza reggiseno. Minitanga.
Saluto entrambi.
La paziente, stupita dalla mia presenza imprevista, accenna un saluto diventando improvvisamente pudica.
Si copre il seno con un braccio e inizia a vagare con lo sguardo inquieto fino a quando le spine di una pianta grassa sembrano darle pace.

E’ strano come noi donne siamo in grado di oltrepassare trasgressivamente il comune senso del pudore quando ci troviamo a tu per tu davanti ad un uomo per poi, come d’incanto, riuscire contestualmente a sdoppiarci -come da manuale- assumendo il virginale aspetto di una santa in attesa del supplizio nel momento in cui si palesa d’improvviso la presenza di un’altra donna.

«Quante sono?» chiedo
«… scusi?…»
«Sì, le chiedevo … quante sono le spine … le sta contando, no?!»
«Ah … già … si … le spine … beh, si … no, non le stavo contando … ero … sovrapensiero … uno sguardo che non vede … sa … com’è …» e ride. Imbarazzata.

Non arrossisce. No.
Quel tipo di purezza non le appartiene più.

«No. Non so com’è. Buona giornata e mi saluti suo marito.»
Prendo il timbro e, uscendo, sorrido (ricambiata) al mio collega. All’osteopata.
Che è anche mio marito.


Il contatto fisico risponde ad un bisogno di regressione.
Bisogna quindi essere sempre consapevoli di ciò che si mobilizza, di ciò che si tocca e di ciò che si dà.

Toccare è un’induzione potente, è un’azione parlante (cfr. Racamier), soprattutto con pazienti fragili che talvolta hanno problemi di integrazione.
Toccare significa ricevere e contenere l’angoscia del paziente, dare un senso alle sue emozioni e un nome ai suoi affetti.
Toccare significa garantire un accompagnamento, una continuità relazionale.

Con il contatto viene dato un senso al movimento affettivo che si manifesta nel corso delle sedute, lasciando emergere, per poi comprendere, quale sia il nesso in relazione con il vissuto corporeo.

Si impongono quindi prudenza e riflessione quando esistono indicazioni per un trattamento osteopatico in quanto si potrebbe facilmente cadere in una forma di erotizzazione –sia da parte dell’osteopata che del paziente– o in un vissuto d’intrusione.

Molti studi internazionali attestano che nessuna categoria di professionisti è sottoposta ad un così elevato grado di molestie sessuali come quella di coloro che operano nell’ambito della salute, come ad esempio noi osteopati.

Il paziente è il nostro mandato e rappresenta la nostra ragione di esistere professionalmente ma questo non significa che la professione debba costituire un limite alla nostra esistenza e ai nostri bisogni.
Quando un paziente si relaziona con l’osteopata utilizzando una modalità comportamentale che rientra nel vasto, spinoso e assai soggettivo campo della molestia sessuale, è importantissimo,anzi doveroso, saper dire “no”.

Generalmente è difficile dire di “no” nella relazione tra simili.
E’ per paura che risulta così difficile dire “no”: paura di inimicarci qualcuno a cui teniamo, di cui abbiamo bisogno o dal quale dipendiamo.
“No” significa essere disposti a lottare, spendere forze,confrontarsi.

In una società in cui molestia e violenza vengono quotidianamente quasi esaltate dalla cronaca,gli osteopati che dicono no devono avere diritto ad un ambiente di lavoro privo di violenza e, se necessario, rivendicarlo: per loro stessi, per la professione, e per i pazienti.

Avere diritto a” o “essere in diritto di” non significa necessariamente creare nuove regole o sanzioni ma evolvere in uno Stato di cultura e civilizzazione.

Forse, a causa di questo torpore secolare che impedisce alla politica di riconoscere l’Osteopatia, molti colleghi osteopati vivono la professione attenendosi scrupolosamente al rispetto dei doveri piuttosto che verificare che i propri diritti siano salvaguardati.

Dobbiamo rendere visibili e comprensibili all’opinione pubblica la responsabilità, l’utilità e il valore della nostra professione affinché venga garantita la qualità della prestazione che, come per qualsiasi lavoro relazionale, necessita di una grande supervisione.

Quadro teorico, progetto terapeutico, definizione della funzione del trattamento osteopatico e suo significato all’interno del progetto terapeutico, riconoscimento del lavoro sulla dimensione relazionale sono capisaldi imprescindibili da cui partire per avere una visione globale dei nostri diritti dei quali uno è senz’altro relativo al divieto di accesso nel proprio studio al paziente che ci ha arrecato molestia.

 

Fabìola Marelli
Osteopata

 

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